OTTO MARZO, QUASI NOVE

Mi arrovello da ieri ed arrivo come il fanalino di coda.

L’otto Marzo volge al termine, carico di mille pensieri. Oggi nulla mi sembrava adatto, ho il cuore troppo gonfio di pena per la cronaca che ci sta addosso.

Poi… poi arriva lui. Ho finito una giornata di lavoro, conciata un po’ così, e mentre mi dirigo all’auto incrocio il fenomeno del giorno. “Ciao bellezza” con il tono di chi potrebbe salutar così anche una mucca, purché con certezza sia femmina.

Tiro dritto.

“Hey, occhioni! Fai la maleducata e non saluti?”.

Non è giorno. Non è tempo. Non è il caso.

Mentre rifletto per non cadere nella rete provocatoria e conto fino a diecimila decido di deviare verso un caffè.

Sono sola al bancone e scambio due piacevoli chiacchiere con la barista. Entrano tre uomini, tergiversano con le ordinazioni, uno dei tre saluta il titolare ( maschio ) e domanda “Hai preso una nuova hostess?”.

Lo guardo. Poi guardo lei. Alza gli occhi e sparisce tra i bicchieri. Evaporano anche i tre moschettieri.

“Hostess?!?” commento.

“Non ci faccio nemmeno più caso, lascia stare…” . Affranta.

Mi torna alla mente una cara cliente del mio negozio, farmacista, laureata, preparata, competente, giovane, donna. In farmacia, nonostante stia al banco con un grembiule bianco e la targhetta col suffisso “Dottoressa” è per tutti la bionda.

Mi sale una tristezza cosmica.

È l’8 Marzo del duemila ventidue.

L’Italia conta già dodici vittime per femminicidio.

In Ucraina, donne e bambini sono dentro ad un incubo terrificante. Bombe, spari, morte, stupri.

Tutto pulsa nella mia testa e fatico a far combaciare la festa, i fiori, la guerra, la violenza ma anche i piccoli gesti irrispettosi ed irritanti a cui siamo sottoposte ogni giorno.

Il grande dibattito sembra arenarsi sugli asterischi e sulle “ə” che spianano le coscienze, amalgamano i generi, alleggeriscono i cuori.

Va bene. Che schwa sia.

Ma le basi.

Pretendiamo le basi. Il rispetto. Il riconoscimento. Il nostro posto. La nostra dignità. Il giusto compenso. La libertà vera di parola.

Proviamoci con le nuove generazioni, così pronte e fertili, così fresche nell’accogliere una società che cambia e che sgomita in quegli schemi vecchi e rigidi che non hanno più nulla a che fare con l’oggi.

Mi sento affranta ed impotente.

Spingo tutta la mia speranza nella direzione delle Donne, che con forza e coraggio stanno affrontando vite difficili in un mondo ancora tanto maschilista, guidato da uomini pronti a radere tutto al suolo per affermare il proprio potere.

La mia speranza va nella direzione delle Donne che dal loro dolore hanno saputo rinascere, con forza innata e naturale, tra le mura di case che sembrano pace e invece sono inferno.

La mia speranza è che la nostra lotta non debba più esistere perché i diritti saranno reali e che l’8 Marzo diventi un giorno qualunque, magari di sole e prime primule.

La mia speranza sono i miei figli, maschi. Prometto di impegnarmi tantissimo.

Oggi è proprio difficile.

Per fortuna, è quasi domani.

25 NOVEMBRE. Il giorno del silenzio che deve finire.

Il 25 novembre 1960 le sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, meglio conosciute come “Las Mariposas”, vengono uccise a bastonate e gettate in un dirupo dagli agenti del dittatore Trujillo, a Santo Domingo.

Erano già state arrestate e incarcerate per il loro attivismo contro il regime, e quel giorno stavano andando a trovare i mariti in carcere.

Nel 1993 la Dichiarazione di Vienna riconosce la violenza sulle donne come fenomeno sociale da combattere, e il 25 novembre viene scelto come giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

25 Novembre 2021.

Quasi trent’anni dopo.

Vengono intervistati gli italiani e un uomo su tre dichiara che uno schiaffo ad una donna non é violenza.

Che forzare la propria partner ad un rapporto sessuale senza il suo consenso non sia violenza.

Ma davvero?

Sí…

Oltre cento donne sono morte in Italia quest’anno.

La maggior parte sono state uccise dal proprio compagno o ex compagno.

La maggior parte non aveva sporto denuncia, e intorno a loro, nessuno sapeva o immaginava nulla.

Come ci aspettiamo che qualcosa cambi se ancora nel mondo maschile uno schiaffo ( uno schiaffo!) non é un problema?

Se così é, allora voglio un mondo al contrario, dove chi tira sberle, sono io.

Cammino per strada, tu mi fissi, fai un commento e io ti tiro un ceffone.

Sono sulla metro, mi guardi, ammicchi, ti strizzi il pacco, mi vieni vicino bonfonchiando cose, e io ti prendo a sberle.

Sono la dottoressa della farmacia, ti accolgo con il camice bianco e ho un ruolo ben preciso, ma tu entri e dici “voglio che mi serva la bionda”. Scavalco il bancone e ti giro la faccia a mani piene.

Sono in discoteca. Inizi a strusciarti fino a che la tua mano piomba sul mio sedere e palpa decisa. Ti arriva uno schiaffo.

Sono la tua segretaria, mi umili davanti a tutti perché non cedo alle tue avance e io in riunione mi alzo e senza dir nulla ti gonfio la faccia.

Sono la madre dei tuoi figli, tu decidi che ti tradisco e fai scenate di gelosia e urli di tutto. Uso entrambe le mani per suonartele a dovere.

Funzionerebbe?

Non credo.

Sicuramente le donne in questo mondo utopico sarebbero serenamente alla pari ma … niente violenza, grazie.

Non voglio stare in una società in cui ad ogni angolo di strada si sente rumore di schiaffoni, perché purtroppo, questo é ciò che succederebbe.

Parlo da madre di due figli maschi. Sento di avere un dovere morale, una strada da tracciare, una missione speciale, ed é quella di far capir loro che al mondo esistono “esseri umani” che sono suddivisi grossolanamente in maschi e femmine, e che vanno rispettati tutti, proprio perché il denominatore comune di ogni persona é “l’essere Umana”.

Vorrei che crescessero rispettando tutti e che capissero che la violenza non é soluzione ma mezzo becero e deprecabile per sfogare una frustrazione che devono risolvere in altro modo.

Perché se un uomo arriva a menare le mani, dallo spintone allo schiaffo alle botte, o ad usare violenza addirittura mortale per esprimere il suo dominio nel mondo, ha un problema.

E quel problema é un problema di tutti noi, della nostra società, ancora così scarsa nel far passare i princìpi basici del rispetto.

Se oggi, un uomo su tre, adulto, senziente e pensante, ritiene ancora che sia normale schiaffeggiare una donna, signori miei abbiamo un problema grandissimo. E ne siamo tutti responsabili, chiudendo gli occhi su tutte le realtà che abbiamo sotto il naso.

Le botte non sono amore.

Gli schiaffi non sono amore.

Qualunque forma di violenza, fisica e psicologica, non é amore.

Nessuna donna merita violenza.

Non esistono le “botte buone”.

E nel 2021, se il nostro Paese permette ancora che ci siano cento donne morte ogni anno, una ogni tre giorni, significa che c’è un vuoto da colmare.

Le donne non parlano perché hanno paura. Hanno paura di non essere credute o di non essere protette. Hanno paura che la pena non sia adeguata e di dover ricominciare il loro incubo poco dopo. Hanno paura di aver provocato certe reazioni. Hanno paura di dover lasciare figli, casa o lavoro, perché se denuncio chissà cosa succede.

Spero che ognuno possa partire dai propri figli.

Spero che nelle scuole ci sia modo di parlarne tanto, tantissimo.

Spero che se tu noti che qualcosa non va, mi aiuti a parlartene.

Spero che i vicini di casa sentendo le urla non alzino la tv.

Spero che nessuno più creda che “é solo un livido, ho sbattuto”.

Spero che non ci debbano più essere orfani di madri morte per mano di un padre.

Spero che quell’uomo su quattro incontri qualcuno che gli spieghi che il suo pensiero può cambiare questo mondo.

Spero, e lo dico sempre, che gli uomini capovolgano il loro pensiero e capiscano che sono gli unici, gli unici! ad avere il potere di salvarci.

Spero di non dover più parlare di 25 novembre.

Perché le donne vanno amate e rispettate ogni santissimo giorno.

PUNTUALMENTE, IN RITARDO.

Non so voi, ma io continuo a sentirmi indietro di qualche passo.

Da questo fermo amministrativo alla vita, da questi tre mesi assurdi, fatico a riprendermi.

Credo che il primo ritardo sia iniziato la prima settimana di lock down.

Giorno uno: esplosione della caffettiera. Per una come me, che il caffè lo inietta in vena circa novanta volte al giorno, è stata una frustata in faccia.

Nello scoprire che le caffettiere non sono bene primario e che quindi non avrei potuto acquistarne un’altra, ho provato qualunque tipo di surrogato: caffè solubile, orzo, terra del giardino.

Nulla di buono. Il caffè è caffè, punto.

Credo che il mio ritardo sia iniziato così, con l’astinenza da caffeina.

La gente cantava sui balconi alle 18, e io ancora stendevo i panni.

La vicina di buon mattino impastava le fettuccine e io cercavo il senso della giornata.

Il mondo dormiva, io ero sveglia.

Mentre tutti trovavano fantastiche occupazioni e gioivano per questa ritrovata felicità casalinga, io rincorrevo giorni sempre uguali in cui mi sentivo letteralmente in gabbia.

Credo che casa mia abbia a un certo punto assunto le sembianze della puntata sette di “sepolti vivi”.

Il mio “io” ordinato era ovviamente in ritardo e ha lasciato rapidamente il posto alla quindicenne ribelle che appoggia tutto dove capita e “ci penso dopo”.

Salvo poi svegliarmi compulsiva, una mattina qualunque, e riordinare tutto come Marie Kondo.

Ditemi che non sono la sola… per favore …

Il primo giorno in cui mi sono seriamente guardata allo specchio ho capito che le settimane stavano inesorabilmente passando.

Capelli bianchi in prima linea, il degrado reso donna.

Ve lo ricordate come si sta senza parrucchiera e senza estetista?

Alla prossima pandemia lo specifichiamo a Conte che sono un bene primario?

Che piuttosto ci faccia sparire il detersivo, ma lasci aperti i centri bellezza! O no?

Ve li ricordate i baffi sino alle ginocchia?

Le ascelle di Tarzan?

La cofana in testa?

Ecco…

Tutto questo insieme al ruolo di casalinga, alla tuta-pigiama permanente e alla didattica a distanza: fonte di esaurimento quotidiano.

La didattica a distanza … vogliamo parlarne?

Almeno due lezioni alla volta, un solo computer. Ed è subito discussione tra fratelli.

Passava una nuvola, morta la connessione.

Entravano nell’aula virtuale e dopo dieci minuti venivano espulsi non si sa perché.

L’adolescenza scorbutica ha toccato vette altissime.

Parliamo di “CLASSE VIVA”?

Era viva veramente, mi sembrava un luogo nuovo ogni giorno, con i compiti che si mescolavano in ordine sparso. Cercavo aprile, usciva marzo, cliccavo matematica e si apriva il link, che rimandava al video, che conteneva la password per il quiz, che andava inviato via mail. Santocielo che fatica!

Le password …

Ne avremo create una cinquantina di nuove. Il mio frigo era tappezzato di promemoria, ma tanto anche quelle si rimescolavano in completa autonomia.

Io odio le password. Da quel momento, ancora di più.

Le lezioni delle elementari?

Sentivo il buongiorno della maestra e poi partivano le voci di tutti i compagni di mio figlio CONTEMPORANEAMENTE : maestra guarda il mio gatto! Maestra mia mamma qui ti saluta! Maestra guarda questo braccio che mi prude! Maestra hai visto la mia maglia?

Dopo un’ora era la stessa nausea del post montagne russe.

A settembre rivoglio la scuola.

Fate cosa volete, io rivoglio la scuola VERA.

Non “viva”.

E sono pronta a incatenarmi in piazza come Sandra Milo, urlando Ciro! Ciro! Oddio la scuola di Ciro!

Giuro che lo faccio.

Il ritardo mi è rimasto addosso.

Non so voi ma io ho perso il ritmo. Hanno riaperto i bar e non riesco a ritrovare nemmeno il vecchio tempo della colazione.

Sto dando la colpa persino al traffico. Mi sembra peggiorato, come se la gente non sapesse più guidare.

A me le strade vuote non dispiacevano affatto…

Sarà la folla di persone in giro? Non vi pare che siamo più di prima?

Osservo ciò che mi succede intorno e mi sembra pure che ci si sia incattiviti un po’.

Quelli degli arcobaleni e delle canzoni sul balcone dove sono finiti? In vacanza?

Non lo so.

Avrò tempo per capire questo nuovo mondo e di riappaiarmi con il giusto tempo.

Forse.

L’unica cosa che spero non passi, almeno non del tutto, è questa strana veglia notturna. Perché tante notti vi ho osservati dormire, amori della mia vita, e ed è stato bellissimo.

Che poi forse è il senso di questo gigantesco singhiozzo temporale:

fermarsi, osservare, amare.

Dicesi: vita.

DAMMI UN SENSO(RE)

Dobbiamo mettere il sensore al seggiolino, noi mamme che dimentichiamo i figli in auto.

Capita a tutte, anche ai papà, solo che quasi sempre il cervello si accende e non succede davvero.

Da oggi, se non si accende, ci pensa l’App e ti allerta lei.

Sarà il sensore giusto quello del seggiolino?

Perché oggi, io madre, avrei bisogno del sensore del malditesta. Mi serve l’App che mi dica piantala! e prendi una pastiglia. Perché sopporti?

Ne vorrei forse uno generico. Titolo dell’App dedicata: malattia. Dovrebbe dirmi fermati! stai a casa, metti la tuta, lanciati sul divano e dormi. Invece no, vado a lavorare lo stesso.

Vorrei il sensore del cibo. Che controlli quando digiuno perché non ho tempo, perché sono arrabbiata, perché la giornata è storta. Che suoni due volte quando apro il frigo e mangio anche i ripiani in vetro perché al diavolo la dieta e vaffanculo al capo.

Vorrei un campanello per lo stress. Livello limite, pericolo, stai lontana dai coltelli.

Vorrei il sensore del sorriso che si connetta direttamente allo specchio, per ricordarmi che quando lo indosso sono più bella.

Vorrei essere avvisata che è ora di far la spesa prima che sia ora di cena, per non impazzire ad inventare qualcosa.

Inventate per me ad un’applicazione per gli incastri, che mi dica dove passare con l’auto per essere contemporaneamente a scuola, in ufficio e in riunione.

Che mi ricordi di ricordarmi di me, dei miei capelli, dei miei vestiti, dello smalto, del mio corpo. Perché non sono come l’auto che col lavaggio super in cinque minuti è nuova. Ho bisogno di tempo. E lo dedico tutto agli altri.

Suona per favore il giorno della recita, proprio a Natale, mentre il lavoro mi succhia l’anima e arrivo sicuramente in ritardo.

Allertami in caso di malinconia acuta. Capita spesso, e in quei momenti non vedo e non sento nessuno. Forse nemmeno una tromba nell’orecchio.

Suona forte ogni volta che trattengo le lacrime perché tra un milione di cose che faccio, ne sbaglio una e crolla il mondo. Voglio l’App del pianto libero.

Ma anche del sonno duro. Senza sogni. Senza sveglia. Senza chiamate notturne. Senza pensieri fissi.

Inventatemi il sensore mamma di merda. Quando esagero parta pure una scossetta nella chiappa, così rassodo anche il sedere, che per la palestra non ho tempo.

Voglio il sensore della terza mano. Se faccio troppe cose tutte insieme sino a desiderare di aver anche la quarta, scatti una sonora risata. La sentano anche i vicini, così mi do una calmata subito.

Vorrei il sensore pazienza. È complicato perché deve funzionare sia quando ne sto mettendo troppa, sia quando la perdo in fretta.

E per la sopravvivenza di tutti i giorni, chiedo il sensore per gli stronzi, quello per i bugiardi, e quello per i razzisti. Che sia una sirena da stadio, così che non mi ci avvicini oltre la distanza di sicurezza.

Tagliamo la testa al toro. Inventiamo il sensore stanchezza. Deve suonare fortissimo e fermare questo mondo matto.

Che per dare un senso alla dimenticanza mostruosa di madri e padri che vivono dentro a frullatori, viene messo in un seggiolino.

E ci pensa l’App del telefono.

Quel telefono che ora lancerei dalla finestra, insieme alle settemilacose che ho ancora da fare.

E fuori è buio da un po’.

IL MATERIALE SCOLASTICO. La tredicesima fatica di Ercole.

Si aggirano come zombies.

Sono il nuovo popolo dei supermercati, li avete visti?

Sono normalmente solitari, talvolta hanno un bambino saltellante aggrappato alle ginocchia e vagano nella nuova, nuovissima, sezione dedicata dell’Iper, quella coi cestoni di metallo e gli scaffali improvvisati.

Sopra le loro teste, in questa Silicon Valley creata ad hoc per far perdere loro il senno, campeggia la scritta “reparto scuola”.

Occhi iniettati di sangue, disperazione in volto, la faccia di chi non ha la minima idea di cosa stia per succedere al totale dello scontrino, e in mano un foglio A4 già sgualcito che riporta la scritta “materiale scolastico”.

Tra loro, ovviamente, deambulo anche io.

Ci siamo.

Mancano pochi giorni al capodanno genitoriale, al giorno X in cui le famiglie possono ricominciare la loro vita ordinata di incastri a tetris, alla mattina in cui saluti tuo figlio e sai che per cinque ore potrai dedicarti serenamente alla tua attività preferita: lavorare.

Riparte la scuola.

Se i ragazzi hanno già installato l’App del conto alla rovescia per le vacanze di Natale ( dice mio figlio che mancano centoquattrordici giorni), noi consultiamo la pagina on line del nostro plesso solare della libertà, controllando che davvero il nove settembre le maestre mantengano la promessa e si acchiappino i nostri abbronzatissimi figli.

Ma c’è un prezzo da pagare.

E non parlo dei compiti, perché per quelli si urla sino al giorno prima.

Parlo della lista.

La lista del delirio più totale su cui ancor oggi mi interrogo profondamente.

Quando andavo a scuola io e di fianco a me sedevano i dinosauri, ci si presentava il primo giorno con grembiule inamidato, un quaderno a quadretti, uno a righe, portapenne con penna matita colori, merenda per l’intervallo e stop.

La maestra accoglieva tutti con gran sorrisi e la mattinata scorreva con degno cazzeggio e racconti del mare.

Oggi no.

Oggi al primo giorno di scuola di tuo figlio ci devi arrivare con il borsone dell’Ikea, zeppo di cose incredibili. Trascini te stessa, il sacco, il trolley, il figlio e la cartella su per le scale e sgomitando in un fiume di famiglie con lo stesso problema, raggiungi l’aula. Ad attenderti ci sono almeno tre maestre pronte alla loro giornata da magazziniere esperte, per smistare, catalogare e incasellare tutta la mole di carta in arrivo.

Per prepararti al faticoso momento, la scuola ti mette nella condizione di avere una settimana di tempo per prendere la laurea in cartoleria. Cambia la moneta corrente, e la spesa di inizio anno si può eccezionalmente pagare in organi ( il più utilizzato è il rene) o in dobloni d’oro.

Ditemi. Quanto avete speso?

Perché le cifre sono da capogiro.

La lista del materiale scolastico è un dissanguamento uguale per tutti, anche perché in alcuni casi la perversione eccentrica raggiunge vette altissime, soprattutto in materia di copertine per i quaderni. Ogni materia ha il suo quaderno, che a sua volta porta copertina dedicata, quadretto specifico, margini o non margini, grammatura della carta, marca del produttore.

L’esaurimento nervoso è alle porte.

Il foglio della perdizione recita più o meno così :

Ai genitori degli alunni delle classi XYZ SCUOLA PINCOPALLO

ANNO SCOLASTICO 2019/2020 ELENCO MATERIALE :

  • Astuccio contenente: 2 matite da disegno FABER CASTELL A SEZIONE TRIANGOLARE, gomma morbida, temperino con serbatoio, matite colorate, pennarelli a punta fine, colla stick grande, forbici dalla punta arrotondata (tutto etichettato).
  • Sacchetto igienico di stoffa con nome in stampato maiuscolo contenente: asciugamano, spazzolino, dentifricio, bicchiere, fazzoletti di carta, salviettine igieniche umidificate.
  • Sacchetto di stoffa con un cambio completo con il nome.
  • Scarpe da ginnastica con velcro in un sacchetto di stoffa con il nome.
  • Carta igienica (solo 2 rotoli) e un sapone liquido.
  • Un raccoglitore ad anelli con 25 bustine cristal di buona qualità.
  • Grembiule (attendere la prima assemblea di classe con indicazioni dei docenti).
  • 1 foto formato tessera per documento d’identità che servirà per le uscite didattiche.
  • 6 quadernoni a quadretti 0,5 cm con margine, con pagine spesse (100 grammi), copertine già messe sui quaderni con colori blu, verde, arancione, bianco, celeste, fucsia con nome scritto in stampatello maiuscolo sull’etichetta
  • 6 quadernoni a righe di quinta con margini, con pagine spesse (100 grammi), copertina già messa su uno dei quaderni con colore gialla, l’altro (di riserva) senza copertina con nome scritto in stampatello maiuscolo sull’etichetta.
  • 1 quadernino piccolo a quadretti 0,5 con copertina nera.
  • 1 cartellina rigida con elastico.
  • 1 contenitore busta trasparente con bottone per verifiche.
  • 1 raccoglitore a buste fisse con copertina morbida.

TUTTO IL MATERIALE SCOLASTICO, ETICHETTATO CON NOME SCRITTO IN STAMPATELLO MAIUSCOLO, VA PORTATO IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA. NEL CASO IN CUI NON SI AVESSE TUTTO INSERIRE NELLO ZAINO (NORMALE O TROLLEY) L’ASTUCCIO, IL QUADERNO CON COPERTINA GIALLA E QUELLO CON COPERTINA BLU.

Non so voi, ma io ogni anno sono in crisi al primo paragrafo.

Quando arrivo alla sezione quaderni ho già chiamato lo psicologo.

Quadretti di prima, di terza, di ottava, giro mezz’ora finché trovo il formato giusto e poi mi accorgo che non ci sono i dannati margini e riparto da capo. La dicitura “carta spessa” poi. Chiedo alla madre che ho vicino. Secondo lei è spessa? Lei apre, sfoglia, tocca, palpa e poi “mmm, dipende “. Ma dipende da cosa? Dall’albero di provenienza?

Per non sbagliare compro i Pigna100, che sono fatti probabilmente in foglia d’oro e costano otto euro l’uno.

L’ultima crociata, una volta che hai decifrato il Codice da Vinci che hai per le mani è la cartella.

Cartella … sembra facile.

Intanto capire se prendere zaino, trolley, rotelle, ma poi quale?!? Avengers, eroi, Star Wars, Frozen, Winx, Invicta, Seven, Eastpak, Vans… ho voglia di vomitare … ma qualcosa di normo banalissimo no?

E il prezzo? Vogliamo parlare del prezzo? La cartella di scuola costa quanto una cena deluxe da Cracco.

Controllo la lista.

Mi pare di aver preso tutto. Anche perché il carrello è pieno.

Manca solo una cosa, che poi era quella che ai miei tempi gasava di più: il diario.

Quello lo fornisce la scuola. È obbligatorio e costerà circa otto euro. Praticamente come un quaderno Pigna100. Quindi conviene …

Ah, e i libri. Novanta volumi per i quali la natura ci ha fornito il secondo rene.

Otto giorni e via.

Dai che è quasi fatta.

Ci si vede lunedì prossimo al bar, 8.30 puntuali e sacco Ikea vuoto piegato sotto il braccio.

Ciao maestre! Vi voglio bene ♥️

FEMMINICIDIO. L’Olocausto delle Donne.

FEMMINICIDIO :

Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna o del suo ruolo sociale

Meglio della Treccani ci riesce Roberto Lodigiani :

Il termine rende l’idea. È l’Olocausto patito dalle donne che subiscono violenza.

Il femminicidio vero e proprio è l’uccisione di una donna in quanto donna. Per capirci, nei primi nove mesi del 2018 si contano 94 donne uccise, ma solo in 32 casi si può parlare propriamente di femminicidio, casi in cui quindi la donna è stata uccisa per colpa del suo genere.

A fine anno le vittime totali sono diventate 106, una ogni tre giorni.

Il termine, ad oggi, comprende un po’ tutto. Il femminicidio non è uno solo. C’è il femminicidio razzista, quello omofobo, quello tra coniugi, quello di massa tramite trasmissione volontaria di HIV, o il femminicidio per pratiche misogine tipo l’infibulazione.

Il punto comune di tutta questa violenza è uno solo: una donna muore e non potrà mai più parlare.

Dati alla mano il fenomeno non si placa. I numeri sono stabili e non resta che osservare i cosiddetti reati spia: i maltrattamenti in casa, lo stalking, le percosse, le violenze sessuali.

Continua a girarmi in testa quell’olocausto.

20 novembre 2018. ANNA FILOMENA BARRETTA, 42 anni, colpo di pistola alla testa. In carcere c’è suo marito, guardia giurata.

9 dicembre 2018. VINCENZA PALUMBO, 25 anni, colpo di pistola. Stessa sorte, subito dopo, per i figli di sei e quattro anni. Nessuno è in carcere. Si è sparato anche lui. L’arma era legalmente detenuta.

12 gennaio 2017. TIZIANA PAVANI muore colpita da una bottiglia mentre dormiva. Si erano conosciuti in chat.

16 settembre 2016. GIULIA BALLESTRI muore per mano del marito, stimato medico, dopo quaranta minuti di botte e calci. Erano una famiglia invidiata da tutti.

23 dicembre 2018. MICHELA FIORI, 40 anni, strangolata da un laccio, probabilmente il guinzaglio del gatto, dal marito da cui tentava di separarsi.

Chi sono queste donne?

Sono donne come me e te.

Lavoratrici.

Madri.

Sono donne che avevano fiducia in quegli uomini, amati anche per lungo tempo. Erano i padri dei loro figli. I compagni con cui fare le vacanze, con cui vedere un film.

Vita normale.

La notizia arriva e nessuno ci può credere.

Era una brava persona.

Non l’avrei mai detto.

Mi sembravano felici.

La verità è che le coppie normali non esistono. Nessuno è immune al conflitto. Anticipare seriamente un comportamento violento è davvero difficile, anche se capirne i segnali è fattibile.

Prevaricazione, violenza verbale, umiliazione in pubblico, volgarità gratuita, menzogne, cattiverie immotivate.

Le donne hanno per natura uno spiccato sesto senso che le può aiutare a sopravvivere. Se riescono ad ascoltarlo potranno passar sopra al senso di vergogna, di inadeguatezza e soprattuto al senso di colpa.

Inciampare in un orco è più facile di quanto si pensi. Riconoscerlo è possibile. Fuggire e proteggersi è doveroso.

Le stime Istat del 2014 dicono però che solo l’11% delle donne italiane che hanno dichiarato di aver subito violenza, ha poi denunciato.

Ecco la paura.

Nel mio girovagare in internet ho scoperto che esiste un’applicazione che si chiama 112 Where are U, che permette di chiamare in muto il numero di emergenza europeo 112 – ove il servizio sia presente – inviando automaticamente i dati di localizzazione.

Laddove muore l’umanità, ci arriva, speriamo, la tecnologia.

Aggressioni, pestaggi, omicidi. Apriamo gli occhi e le orecchie.

Le oltre tremila donne morte in Italia negli ultimi vent’anni hanno certamente incontrato il peggior uomo sulla faccia della terra. Ma avevano anche sicuramente parenti, amici, colleghi, vicini di casa.

Chi non aiuta, quando può, è complice.

Chi tende una mano, può salvare una vita.

Chi fa dell’otto marzo uno stile di vita, getta il seme per una società migliore.

Le botte non sono amore.

Per amore non si muore.

L’Olocausto femminile deve smettere di esistere.

O almeno così dovrebbe essere.

Buon otto marzo.

Soprattutto agli uomini.

Salvateci voi.

LA STORIA DEL MAI ABBASTANZA.

Nella storia del mai abbastanza gareggiava da sempre con una lei spettinata. 

E con uno specchio che le diceva “sorridi”. 

Le forme nel tempo, il cambiare sembianze, già dai tempi passati in cui sprofondava in maglioni giganti perché non era abbastanza

Abbastanza magra piatta alta lunga. 

Oggi forse manca un sacco d’altro. 

Sgomitava per essere sé. Fuori da imposizioni amorevolevoli che iniziavano sempre con un “dovresti”. 

Dovresti provarci, dovresti fare, dovresti dire. 

Probabilmente avrebbe dovuto essere altro, forse perché non era abbastanza perfetta per tutti. 

Oggi accumula sbagli quotidiani, sbatte la faccia nel troppo voler fare, con il “non abbastanza” sempre nelle orecchie. 

E corre e corre e corre fino al punto di dimenticare. 

Come quando ha dimenticato di andarlo a prendere a scuola e si è detta che come mamma talvolta non era abbastanza

E poi i fantasmi, mai troppo fantasmi. Quelli che la strozzano dritti alla gola e non la fanno mai piangere abbastanza

Vorrebbe piangere un’ora intera, o forse un giorno e anche una notte. 

Svegliarsi al mattino pensando che le lacrime hanno lavato via tutto e i singhiozzi hanno scacciato il buio. 

Invece di questi momenti non ne trova abbastanza, e il non detto e il non fatto li rimette nella sacca dei silenzi

Così scrive e inonda diari di parole che poi chiude in qualche dove. 

Forse insieme a quei brava! che ha sempre aspettato e che cerca di regalare agli altri.

Ai bambini.

A te. 

Forse insieme ai baci e alle carezze che dispensa, perché il suo motore è proprio quello, la cura paziente di chi ama le piccole cose

Sbaglia modi, sbaglia tempi, sbaglia scarpe e vestiti, sbaglia casa e gusti, sbaglia in auto e sbaglia numero. Collezionista seriale di commenti e appunti severi. 

Vaso di Pandora in cui tutti hanno il piacere di aggiungere qualcosa. 

Nutre desideri e alimenta sogni che porta a letto ogni notte. E li culla con la nenia più antica e la voce più dolce. 

Che ascolta anche lei quando non ha sonno abbastanza. 

E si risveglia come sempre, spettinata e corazzata, pensando che se davvero non è mai abbastanza

di questa donna

chi non ha capito niente

forse

sei tu

CONTENITORI E AMORE

Un sabato ogni quindici giorni mangio una cena al volo dai miei genitori. Succede perché devo recuperare i miei ragazzi ma anche perché solitamente il sabato è una giornata campale in cui spesso non vedo nè colazione nè pranzo e questa cena è balsamo per lo stomaco. 

In quel sabato sera faccio due chiacchiere da tranquilla con loro, mi gusto un pasto preparato, seduta al tavolo e con calma. 

Impagabile. 

Oggi la cena è saltata.

Colpa mia. 

Ho finito tardissimo e volevo solamente tornare a casa. 

Avrei sicuramente saltato la cena. Quando è così non cucino nemmeno a pagamento, sazia della mia stessa stanchezza. 

E invece … babbo mi ha preparato il contenitore

Ecco, io sul contenitore mi sciolgo

L’idea che abbia cucinato, che si sia dispiaciuto della mia assenza e che abbia messo il mio cibo in quella scatoletta a me commuove. 

Questa cena del sabato mette i miei genitori duramente in crisi ogni volta. Mia madre specialmente sono anni che non capisce cosa diavolo mangi io. 

Il giorno che le ho spiegato della mia scelta vegetariana mi ha guardata come se le avessi comunicato l’imminente esplosione del globo terrestre. 

“Ma perché ?”. Mi ha chiesto.

Io e mia sorella siamo il prodotto di una donna sarda che ha sposato un toscano. Motivo per cui da piccole siamo state svezzate direttamente con maiale allo spiedo e bistecche di brontosauro al sangue. 

Ho spiegato a mia madre che avermi a tavola non deve essere un problema, e che io mi adatto comunque a mangiare ciò che posso. Nessun menù a parte. 

Ma no

Non se ne fa una ragione. 

“Ho fatto la salsina verde”.

“Ha le acciughe mamma?”.

“ Sì, ma poche”.

Mmmm…

“Ho fatto la torta salata. Mangia tranquilla che di prosciutto ne ho messo pochissimo..”

“Mamma …”

“ Ma è solo prosciutto !”

O come stasera:

“Il tonno lo mangi?”

È pesce, mamma, anche se in una scatoletta è pesce …

Non c’è verso.

E a me fa un sacco ridere. 

“ Dai Stefania, per una volta, non succede niente..”

Si dibatte in modo amorevole e le tenta tutte. 

Mio padre invece pare aver metabolizzato e si cimenta in preparazioni di vario tipo. 

Stasera ha fatto le polpette di fagioli. Per me. E vedendole avanzare causa assenza della sottoscritta ha preparato il contenitore

Sei polpette. Disposte alla perfezione. Con calma e cura. Tutte della stessa dimensione. Panatura impeccabile. 

L’ho aperto a casa e ho fissato l’opera. 

Son polpette, direbbe chiunque. 

No

Quello è proprio mio papà. Quella è la sua attenzione

E mi ha ricordato le gite da ragazzina con lui che si svegliava presto e mi preparava il pranzo da portarmi dietro.

Quei pomodori tagliati a cubetti, o il panino scientifico in cui nulla sbordava. 

Il sacchetto in cui riponeva il suo amore. La forchetta chiusa nel tovagliolo e un frutto. Pensava a tutto. 

Non ci badavo, allora. 

Oggi invece ripensandoci, ho fermato gli occhi su quella sua piccola opera d’arte e ho sorriso. 

I papà sono patrimonio dell’umanità. 

E i contenitori pure. 

Anche a quarant’anni. 

❤️

In foto : babbo annuncia contenitore, figlia felice

RINASCERE UOMO? Naaaa…

Quante volte le mie clienti sul lettino si dimenano tra dolori indecenti e a denti stretti mi sussurrano : nella prossima vita rinasco uomo.

Questo succede mentre io mi districo in operazioni ginecologiche di alto livello, spiegando che magari se evitassero il semplice risveglio primaverile del “levami tutti i peli” si soffrirebbe meno tutti.

Io compresa.

Non avrei nessuna voglia di rinascere uomo.

Un uomo oggi vive costantemente sotto la lente di ingrandimento. Molto più di noi.

Intanto magari ha una moglie che lo spedisce dall’estetista a levarsi i peli, e credetemi, soffre come un cane.

Ne ho visti in lacrime.

Perché, ricordiamolo, noi possiamo essere pelose, ma loro hanno le liane. Ascelle che sembrano capelli, schiene da pettinare, riporti sulle cosce. Prova a strapparli quei peli lì! e poi mi dici cos’è soffrire…

Noi siamo programmate al dolore, il fatto che non perdiamo la vita con le doglie dimostra il carico che ci ha donato la natura.

E poi noi pretendiamo di tutto.

Che siano maschi, ma teneri, che spacchino le pietre ma senza ruttare, che apprezzino la nostra cucina ma cucinando loro.

Vogliamo che facciano i fidanzati/mariti/amanti ma anche i padri. E che non vomitino cambiando un pannolino.

Che parlino. Che ascoltino. Che capiscano.

Cos’hai amore?

NIENTE.

E DEVONO capire.

Capire cosa? che nemmeno noi ci capiamo un cazzo di quello che ci passa per la testa…

Hai il ciclo? chiedono.

Perché poveretti mica hanno ancora capito che noi il ciclo l’abbiamo tutti i giorni. Basta un nulla, un respiro sbagliato, una parola storta, una piccola dimenticanza che il ciclo ci arriva.

Istantaneo.

Mentale.

E la menopausa non è un traguardo. Il ciclodramma non finisce MAI.

È perenne e avvolto nel mistero. Non si sa quando arriva, non si sa perché e non si sa QUANDO passa.

Stai male?

MA SECONDO TE? E parte il ruggito… poveretti.

Questi camminano sulle uova tutti i giorni, signore mie, con un inconfessabile terrore di essere sbranati a tradimento di notte.

L’uomo di oggi deve essere psicoginecologo praticamente.

Deve individuare il prima possibile l’inizio del nostro delirio e fare come fanno gli analisti : buttare lì una domanda e lasciare che la seduta inizi, pronto a una valanga di merda.

E questo se hanno la fortuna di avere in casa una donna che parla.

Perché se poco poco lei ha crisi sociopatiche con mutismo a oltranza, son cazzi.

Ditemi che non vi è mai successo. Togliergli parola, saluto, sguardo e ossigeno PERCHÉ DEVE CAPIRE.

Cosa deve capire?

Capisce che siamo matte…

“Gli uomini non sono più quelli di una volta”. Dico io, per fortuna.

Mio nonno, semplice e sincero, in situazioni come queste avrebbe consigliato senza giri di parole a sua moglie di buttarsi un po’ d’acqua fredda in faccia. Datti una calmata, insomma.

Gli uomini di oggi vivono con un punto interrogativo sulla fronte per massimo due giorni, poi in qualche modo si esprimono. È evoluzione della specie.

Lo sanno che siamo mine vaganti …

Un giorno è venuto qui un mio cliente e mi ha detto : Anna mi ha appena scritto un messaggio. Diceva : “pensaci e quando capisci ne parliamo”.

Secondo me ci sta pensando ancora adesso. Credo che si sia interrogato su qualunque cosa, dal bucato steso storto alla spazzatura non buttata, al ritardo di tre minuti e alla pasta cotta troppo al dente.

E poi magari Anna aveva accorciato la frangia e invece lui aveva notato le scarpe.

Ma ci rendiamo conto?

No no. Preferisco mille volte essere donna e sentirmi dire che sono ciò che ( in effetti) sono , che non dover vivere con l’ansia da prestazione sempre.

Che poi se son maschio e mi monta l’ansia anche il mio bene più prezioso (…) smette di rispondere ai comandi ed è un disastro su tutta la linea.

Noi ci appropriamo di tutti i ruoli e con fierezza sgomitiamo nel mondo. Tra sbalzi di umore e geometrie esistenziali, come diceva qualcuno, con la sola incombenza di levarci i peli.

E di essere in forma e sexy.

Mamme e amanti hard.

Lavoratrici e lupe alla tana. Organizzatrici di vite e orizzonti.

Dive da copertina con propensione allo sport.

Decise ma sorridenti.

Ferme e comprensive.

Empatiche.

Simpatiche.

Rapide ma non caotiche.

Intelligenti ma non noiose.

Tutto questo con il ciclo perenne.

Dai! è fighissimo! 🤦🏻‍♀️

LETTERA DI UNA FIGLIA A SUO PADRE.

Avevi la barba lunga, i pantaloni a zampa e gli zoccoli ai piedi. Se ci penso ora sorrido, ma allora eri un gran figo.

La mamma si faceva i codini e usava le zeppe; nella valigia che ti ha portato qui, chissà quale vita.

Chissà cos’è stato il tuo tempo in Toscana e ciò che hai lasciato per diventare “noi”. Ricordi chiusi in un cassetto che custodisci gelosamente. Fai bene.

Di sicuro in quel cassetto non c’è il ballo. Sei nato con due piedi sinistri dici tu.

E nemmeno il canto direi.

Chi cantava era mamma.

Ciò che porti da sempre con te è la voglia di raccontare. Quante storie, quanti aneddoti, quanto sapere.

“Ero sempre malato da piccolo, così ho letto tutte le enciclopedie che avevamo in casa”. Ti sono rimaste tutte incastonate in testa.

Quante cose che sai papà!

Sarò sempre affascinata dalla tua infinita conoscenza.

Hai lavorato tanto. Non perché fosse necessario. Lavoravi perché ti piaceva un sacco, forse più che stare a casa.

Non sei mai stato quel genere di padri che si siedono a giocare coi figli.

Quella era mamma.

Ma alcuni “riti” li ricordo bene.

Come andare a letto “a cavallo”, e il cavallo eri tu. E fingevi di morir di fatica ogni volta, e più morivi e più noi ridevamo.

O la serata schifezze. Mamma era nel trip dei corsi serali di cucito ( questa cosa prima o poi la devo raccontare per bene) e noi avevamo la nostra serata trasgressiva. Eri un perfetto direttore d’orchestra, e approfittando che la mamma era via si mangiavano cibi proibiti sul divano con la tv accesa.

Papà, questa cosa la faccio ancora adesso, sai?

Se son da sola mangio sul divano: mi fa un po’ film americano e un po’ infanzia nostra.

Non sono stata facile.

Tagliata a metà tra la figlia bella diritta su cui riporre parecchie aspettative e la ribelle cocciuta che vuole fare il suo.

Quante volte per protesta ho dormito sul pavimento. Che poi l’unica scomoda ero io.

Quante volte ti ho tolto la parola, anche per lungo tempo.

Quante volte ti ho messo in mezzo ai miei scontri titanici con la mamma. E a entrambe dicevi “ dai, lo sai che è fatta così “.

Papà l’eterno mediatore, ancora oggi che siamo tutte grandi.

Papà unico uomo in una famiglia di donne. Unico ramo maschile di un albero matriarcale dalle radici profondissime.

Penso a tutto ciò che è successo nella nostra vita e a quante volte hai fatto retromarcia di fronte alle decisioni del Clan. Roba da far tremare Isabel Allende.

Ogni tanto arrivava un alleato maschio. Prima erano i gatti, che casualmente “trovavi “( nessuno lo dica a mamma) e che poi per vecchiaia ci lasciavano.

Poi i nostri fidanzati.

Siamo state fortunate, hai voluto bene a tutti e, diciamolo, tutti hanno voluto bene a te, forse anche per naturale solidarietà maschile.

In una famiglia di donne leader, l’unico modo per tenerle buone è riempir loro la pancia.

Non ricordo giorno in cui tu non abbia cucinato. A casa nostra non sono mai mancati i libri di cucina, le dispense, i raccoglitori e i quadernoni su cui appuntare ricette o attaccare i ritagli delle migliori trovate sui giornali.

La cucina è un altro posto in cui non conosci segreti, e persino i nostri figli ti sfidano nelle preparazioni più difficili. E tu li sai sempre stupire.

Per te son sempre stata “Chicca”. Sei l’unico al mondo a chiamarmi così. Ancora oggi succede quando ti telefono : “Ciao Chicca”.

Con quello strascico toscano che qui tutti capiscono che arrivi da fuori, e poi quando vai dai tuoi ridono del nuovo accento piemontese. Un ibrido.

Eh, i toscani son simpatici…

Bugia! Hanno un carattere terribile, da un attimo all’altro passi dall’essere miglior amico a uomo morto. Focosi. Testoni. Guerrieri nella dialettica. Ma col cuore grande. E un po’ mi ci vedo.

Eri tanto selvatico ma poi il cuore te l’ha ingrandito la mamma, che ti ha dato due figlie, più una. Tre donne oramai adulte che oggi ti affidano figli e commissioni, perché insomma sei in pensione e di lasciarti in pace non se ne parla proprio. Trovi spazio per tutti : grazie.

Ti ho visto invincibile per molto tempo. Finché è arrivato l’ospedale e ti hanno mangiato via un polmone. Anche lì hai fatto il tuo, con forza e buon umore. Dimostrando che si può avere moltissima paura ma anche grandissimo coraggio. Oggi ne ridiamo tutti, per fortuna.

Per la festa del papà ti ho fatto tantissimi regali. Anche alla mamma ne ho fatti, ma i tuoi erano indubbiamente più brutti! Eppure li hai esposti tutti come trofei sulla scrivania al lavoro. E le cravatte… che cravatte orrende ti ho comprato papà! “Questa è talmente strana che non la mette” e invece il giorno dopo l’annodavi alla camicia e partivi. Chissà che pensavano di questo capoufficio con le cravatte con gli orsi…

Nessun regalo quest’anno, come da tempo ormai. Ma un pensiero sorridente su chi sei e chi sei stato; un piccolo, piccolissimo spaccato.

Su come i rapporti cambiano e su come ci si vede a distanza di anni.

Su come si cambia noi e su come si impara a perdonarsi a vicenda.

Perdonarsi.

Tra genitori e figli è spesso lotta. Ma poi, per tanti motivi le armi si posano e ci si guarda negli occhi.

E noi gli occhi li abbiamo grandissimi, vero papà ? Ci sarà un motivo se li abbiamo grandi così.

Forse, è solo per commuoverci meglio.

Chissà.

19 Marzo 2018

Auguri papà.